8 FEBBRAIO 2021 Contro la tratta delle Persone
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GIUSEPPINA BAKHITA, DA SCHIAVA A SANTA

Madre Giuseppina Bakhita, nasce nel 1869 nella regione sudanese del Darfur. A sette anni viene rapita e venduta come schiava. Dopo alterne vicende, viene acquistata da un diplomatico italiano e a 14 anni sbarca a Genova. Quattro anni dopo viene dichiarata legalmente libera e nel 1890 riceve battesimo, cresima ed eucaristia. A 22 anni entra nel noviziato delle suore Canossiane di Venezia e tre anni dopo, nel 1896, prende i voti.

Nel 1902, suor Bakhita viene trasferita da Venezia a Schio, in provincia di Vicenza. Qui, nell’istituto delle Canossiane  resterà praticamente per 45 anni, ricoprendo sempre incarichi umili come cuciniera, portinaia o sacrestana. Muore l’8 febbraio 1947 a 78 anni. Il 17 maggio 1992 viene solennemente beatifìcata a Roma, in piazza San Pietro da Giovanni  Paolo II. Lo stesso Pontefice la canonizza il 1° Ottobre 2000.

Il tragico rapimento.

“Avevo 9 anni circa – racconta la stessa Bakhita –  quando un mattino andai con una mia compagna di dodi­ci o tredici anni a passeggio nei no­stri campi, un po’ discosti da casa. Interrotti i nostri giochi eravamo intente a raccogliere erbe.

Ad un tratto vediamo sbucare da una siepe due brutti stranieri armati. Giunti vicino, uno di loro disse al­la mia compagna: «Lascia che que­sta picci­na vada là presso quel bosco a prendermi dei rami; tornerà presto, tu prosegui per la tua strada e ti raggiungerà subito». Il loro piano era di allontanare la mia amica perché, se fosse stata presente alla cattura, avrebbe gettato l’allarme. Io non dubitavo di nulla. Mi prestai a ubbidire come sempre facevo con la mia mamma.

Appena internata nel bosco in cerca dell’involto che non trovavo, mi vidi quei due alle spalle. Uno mi pren­de bruscamente con una mano, con l’altra estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce imperiosa mi dice: «Se gridi, sei morta. Avanti, seguici!». L’altro mi spingeva puntandomi le canne di un fucile alla schiena. Io rimasi impietrita dalla paura. Gli occhi spalancati e tremante da capo a piedi faccio per gridare ma un nodo alla gola me lo impedisce. Non riuscivo né a parlare né a piangere. Spinta con violenza nel buio del bosco, mi fecero camminare fino a sera. Ero stanca morta. Avevo i piedi e le gambe sanguinanti per le schegge dei sassi e le punture delle spine dei rovi. Io non facevo che singhiozzare ma quei cuo­ri duri non sentivano pietà.

Finalmente, passando per un enorme campo di cocomeri, ci fu una buona sosta per prendere fiato. Colsero alcuni frutti e me ne porsero un pezzo perché lo mangiassi. Ma io non riuscivo proprio ad inghiottirlo, benché fosse dal mattino che non prendevo cibo. Non avevo in mente che la mia famiglia. Chiamavo mamma e papà con una angoscia d’animo da non dire. Ma nessuno là mi udiva. Di più: mi si intimava silenzio con terribili minacce mentre così, stanca e digiuna, mi facevano riprendere il viaggio che durò di seguito tutta la notte.Al primo albeggiare entrammo nel loro paese. Non ne potevo proprio più. Uno di essi mi afferrò per una mano e mi trascinò nella sua abitazione, mi introdusse in un bugigattolo pieno di arnesi e di rottami. Il nudo terreno doveva servire come letto. Mi diede un tozzo di pane nero e mi disse: «Stai qui». Uscendo chiuse la porta a chiave”.

Con la sua Africa nel cuore

Bakhita continua il suo racconto: “Stetti là più di un mese. Un piccolo foro in alto era la mia finestra. L’uscio veniva aperto per brevi istanti per darmi da mangiare. Quanto io abbia sofferto in quel luogo non si può dire a parole. Ricordo ancora quelle ore angosciose quando, stanca di piangere, cadevo sfinita al suolo in un leggero torpore, mentre la fantasia mi portava fra i miei cari lontano lontano. Lì vedevo i miei amati genitori, i miei  fratelli e le  mie sorelle, e tutti abbracciavo con trasporto e tenerezza, narrando come mi avevano rapita e quanto avevo sofferto. Altre volte mi sembrava di giocare con le mie amiche nei nostri campi, mi sentivo felice. Ma ahimè, tornata alla cruda realtà dell’orrida solitudine, mi pigliava un senso di scoramento che mi pareva mi si spezzasse il cuore”.

Bakhita la Fortunata

“Come ti chiami, negra?” le chiese finalmente l’arabo che la teneva stretta. La piccina voleva rispondere ma non seppe…  Rispondi!, le intimò l’aguzzino sgarbatamente. Le sue labbra balbettarono poche sillabe sconnesse. Chiamala Bakhita e non perdere tempo con quella mocciosa”, disse l’altro agitando il frustino. ”Hai capito? D’ora innanzi ti chiamerai Bakhita. Non dimenticarlo”. Ironia dei nomi! Bakhita significa fortunata, e in quel momento chi più sfortunata di lei? Quel che è certo è che da quel momento in poi, con un nome arabo, Bakhita comincia un percorso che la porterà a essere conosciuta in tutto il mondo come una santa cristiana. Con quel nome dopo quindici anni viene battezzata. Nel 1992, a distanza di quasi 120 anni, quel nome è stato scritto per la prima volta nel calendario dei santi cattolici diventando un segno della vicinanza di Dio e un simbolo di riscatto per i tanti cattolici del Sudan e del mondo che vivono sulla loro pelle la quotidiana repressione per motivi religiosi e spesso il martirio.

 

La “Tratta degli Schiavi” continua

 

La storia di Bakhita, resta attualissima. In quelle  stesse regioni il rapimento di negri africani non musulmani (soprattutto giovani donne e bambini) è proseguito con alti e bassi per tutto il ‘900 a opera di tribù islamiche africane e vari eserciti irregolari. Buona parte degli schiavi veniva esportata nella penisola arabica. La parte restante (oggi la quasi totalità), veniva trattata nel mercato interno.

Attualmente in Africa esistono ancora zone  dove lo sfruttamento di schiavi  si svolge alla luce del sole e secondo pratiche antiche. Lo dimostrano le sistematiche denunce di Amnesty International e dell’Anti Slavery International.

Praticamente, quello che è successo alla piccola Bakhita sta a dimostrare quanto sia attuale la storia della santa sudanese. Vale la pena riportare integralmente il racconto orale che da generazioni, nel Bahr el Ghazal, dove abita la popolazione Dinka, i genitori trasmettono ai propri figli in forma di raccomandazione: “Ti metteranno un collare attorno al collo, ti metteranno le catene alle caviglie. Figlio, non sentirai più il vento della savana, la libertà del tuo popolo. Al mercato ti toccheranno per vedere quanto sarai forte per il lavoro. Un uomo ti pagherà per comprarti come un sacco di carbone da gettare nel fuoco. Figlia, di te ruberanno anche il tuo ventre. Ricordatevi, figli, vi dovete svegliare sempre presto, prima ancora dell’alba. Pronti a scappare nella boscaglia, quando arriveranno gli arabi sui loro cavalli dalla bocca che schiuma rabbia. Non sentirete più le voci dei vostri genitori, che verranno sgozzati, ma il tintinnare dei ferri che vi accompagneranno nella vostra vita di schiavi”.

Teresino Serra

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